"L'evoluzione creatrice"

Nell'elaborazione del saggio "L'evoluzione creatrice", Henri Bergson prende come punto d'avvio la riflessione sul tempo. Per il filosofo, la concezione del tempo che solitamente si considera, cioè quella spazializzata, nella quale si divide il tempo in punti tutti distinti e separati l'uno dall'altro, uguali fra loro e caratterizzati dalla numerabilità e dalla misurabilità, è erronea. Per Bergson, il tempo non è un "fatto" ma un "atto" della vita spirituale del soggetto; la successione è solo il frutto dell'unificazione operata dal soggetto pensante; unificazione per la quale ogni evento ha senso in relazione a quelli precedenti e quelli seguenti; e quindi ogni evento conserva una sua propria specificità qualitativa che lo distingue dagli altri.

Bergson spiega che l'uomo è comunque portato a concepire il tempo in termini spaziali perchè tale operazione risulta comoda nella vita pratica; in effetti la nostra coscienza solidifica l'esperienza, che è un flusso continuo, in una molteplicità di "istanti", ponendoli come esistenti in modo separato poichè non potrebbe fare altrimenti:l'anima non vive separata dal corpo e, soprattutto, non è indifferente alle esigenze della condizione corporea.

Ciò che produce la parcellizzazione, il consolidamento e l'immobilizzazione della nostra vita spirituale è l'intelletto, che è essenzialmente preposto ai fini della vita: l'intelligenza è definita da Bergson come la "facoltà di costruire mezzi artificiali" che assecondino i bisogni della nostra vita quotidiana, tanto che il filosofo sostiene che originariamente l'uomo non è "homo sapiens" ma "homo faber".

Per queste sue caratteristiche l'intelligenza si rappresenta chiaramente solo ciò che le è proprio, quindi ciò che è solido, discontinuo e immobile, mentre ha un' incomprensione naturale per il movimento, il divenire e la vita. Bergson spiega il funzionamento dell'intelligenza, paragonandola al cinematografo, nell'ultima parte dell'"evoluzione creatrice", intitolata appunto "il meccanismo cinematografico del pensiero e l'illusione meccanicistica". In effetti, spiega Bergson, l'intelligenza prende sul divenire delle "istantanee" e cerca di riprodurre il movimento mediante la successione di tali istantanee (che non rappresentano se non cose immobili), azionando una specie di cinematografo interiore. Questo meccanismo si lascia sfuggire ciò che vi è di proprio nella vita, cioè la continuità del divenire nel quale non si possono distinguere stati immobili:                                                                   "Supponiamo di voler riprodurre su uno schermo una scena animata, per esempio la sfilata di un reggimento; dovremmo prendere sul reggimento che passa una serie di istantanee sullo schermo in modo che si succedano rapidamente le una alle altre. Così fa il cinematografo. Con dei fotogrammi, ognuno dei quali rappresenta il reggimento in un atteggiamento immobile, esso ricostituisce la mobilità del reggimento che passa. E' vero che se noi ci trovassimo di fronte le fotografie soltanto, per quanto le guardassimo, non le vedremmo mai animarsi. Perchè le immagini si animino, bisogna che da qualche parte il movimento ci sia. E infatti il movimento c'è: esso sta nell'apparecchio. La pellicola cinematografica si svolge portando, uno dopo l'altro, i diversi fotogrammi a continuarsi gli uni negli altri, ed è così che ogni attore di questa scena riconquista la sua mobilità: egli infila tutti i suoi atteggiamenti successivi sull'invisibile movimento della pellicola. Questo è l'artificio del cinematografo. Ed è anche quello della nostra coscienza. Invece di spingerci fino all'intimo divenire delle cose, noi ci collochiamo al di fuori di esse, per ricomporre artificialmente il loro divenire. Fissiamo delle immagini quasi istantanee sulla realtà che passa e, poichè esse sono caratteristiche di questa realtà, ci basta infilarle lungo un divenire astratto, uniforme, invisibile, situato al fondo dell'apparato della conoscenza, per riprodurre ciò che vi è di caratteristico in questo divenire medesimo" 

Bergson riassume tutte queste sue osservazioni in un'unica affermazione:                                                                       "Il meccanismo della nostra conoscenza abituale è di natura cinematografica" 

Il filosofo aveva già esposto questo concetto in un'altra sua opera, "Materia e movimento", nella quale però arriva a porre un altro tipo di problema: quello della creazione del nuovo. Il cinema ricostruisce il movimento secondo foto istantanee scattate sul reale, sezioni materiali immanenti, istanti qualsiasi, e in ciò è alla pari delle altre ricerche della modernità. Ma che interesse può avere tale meccanismo? Quando si riporta il movimento a dei momenti qualsiasi, bisogna diventare capaci di pensare la produzione del nuovo, cioè del "notevole e del singolare", in uno qualunque di questi momenti, o un tale tipo di scoperta rischia di svuotarsi di significato. Nel cinema è Ejzenstejn a proporre interessanti soluzioni a questo riguardo, prelevando singolarità dal qualsiasi e producendo istanti privilegiati (quello che il regista sovietico chiama "il patetico")

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